Diffondere immagini e video privati, a sfondo sessuale ma non solo, senza il consenso degli interessati, è ora reato. Il 2 aprile scorso, infatti, con 461 voti a favore e nessuno contrario, la Camera dei Deputati ha approvato un emendamento al disegno di legge “Codice rosso” che introduce il reato di “revenge porn”. Il disegno di legge dovrà, ora, completare il suo iter con l’esame al Senato, per ricevere poi il via libero definitivo.
La pena prevista sarà la reclusione da 1 a 6 anni e con una multa dai 5.000 ai 15.000 euro, aumentata qualora il reato venga commesso dal coniuge, anche se separato o divorziato, o da chiunque è o sia stato legato da qualunque tipo di relazione alla persona nociuta. La pena verrà aumentata anche nel caso in cui i fatti vengano commessi nei confronti di persona in condizioni di inferiorità fisica o psichica o in stato di gravidanza. Il delitto è punito a querela della persona offesa.
Ma cos’è il “revenge porn”? Sostanzialmente è una vendetta (“revenge” appunto) nei confronti spesso di un ex partner, che consiste nella diffusione di immagini o video privati, e in quanto tale viola la privacy del diretto interessato. Spesso alla diffusione si accompagnano una serie di minacce e ricatti. Il “revenge porn” non viola la persona solo sul piano fisico ma intacca la sua psiche, portando anche a non scontati tentativi di suicidio, che oggi sono protagonisti di tragici fatti di cronaca. Il più grave caso di cronaca in Italia è quello che ha riguardato Tiziana Cantone, donna napoletana di 31 anni, arrivata al suicidio nel settembre del 2016 dopo la diffusione, da parte del suo ex compagno, di suoi video sessuali privati, diffusi senza il suo permesso. Il “revenge porn” è, spesso, una conseguenza del “sexting”, uno scambio di messaggi e foto esplicitamente a sfondo sessuale.
L’opinione pubblica spesso si è espressa con un giudizio morale intriso di maschilismo nei confronti del genere maggiormente colpito da questo atto invasivo e destabilizzante, le donne. Probabilmente a pochi è noto che si può divenire vittime, pur non essendone a conoscenza. A testimonianza di ciò sono il “down blouses”, ovvero una fotografia non autorizzata del seno femminile e l’”upskirts”, la ripresa dal basso verso l’alto per evidenziare biancheria intima o nudità. Da un momento all’altro l’intimità è “visualizzata “e condivisa sui social, specialmente sulla piattaforma di Telegram, più funzionale allo scopo del colpevole dal momento che consente di mantenere l’anonimato. Altra conseguenza sottovalutata è il così chiamato “Slut shaming”, termine che definisce la volontà di far sentire una donna colpevole o inferiore per determinati comportamenti o desideri sessuali, considerati in contrasto rispetto alle aspettative tradizionali o ortodosse. La società attuale è permeata da insicurezza e frustrazione, sentimenti che portano soprattutto i giovani a trovare sfogo in un’attività meschina, aiutata senz’altro dalla complicità di una tecnologia che prende il sopravvento su coloro che non sono in grado di gestirla in modo adeguato.